Com’è cambiato il lavoro con l’avvento dell’emergenza Covid-19? Quali sono le nuove necessità in tema di sicurezza per imprese e lavoratori? Com’è cambiata la percezione del rischio nei mesi in cui siamo stati chiamati a ripensare i luoghi in cui trascorriamo la maggior parte delle nostre giornate e le nostre interazioni? Ne abbiamo parlato con la dottoressa Antonina Callea, specialista in Medicina del Lavoro e Statistica Medica e tra i responsabili di “Salute e Lavoro”, società cooperativa che si occupa di Medicina del Lavoro e presta le proprie attività in funzione di tutta la normativa in vigore sulla salute e sicurezza sul lavoro.

Dottoressa Callea, riavvolgiamo il nastro e andiamo indietro nel tempo: quando è iniziata l’emergenza Covid-19 in ambito lavorativo?

Il problema si è cominciato a sentire in modo concreto tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, quando i media hanno iniziato a parlare in modo sempre più diffuso di Coronavirus, anche se l’argomento esisteva già da qualche settimana. In quei giorni eravamo impegnati nella normale sorveglianza sanitaria e talvolta venivamo sollecitati a dare risposte orientative sul tema dai datori di lavoro e dai lavoratori. D’altra parte non erano disponibili indicazioni precise e dettagliate provenienti dalla sanità pubblica né c’era un quadro normativo di riferimento a cui attenersi.

Poi tutto è accelerato improvvisamente…

Nella settimana dal 9 al 13 marzo la situazione è diventata molto impegnativa, con l’inizio del lockdown lo scenario è cambiato in modo drastico. A malincuore abbiamo preso la decisione di chiudere il poliambulatorio, nonostante dovessimo far fronte a obblighi normativi da effettuare alla scadenza. Grazie a questa scelta, però, abbiamo avuto modo di raccogliere le idee sulle indicazioni che arrivavano molto rapidamente dal Governo, dal Ministero della Salute e dai Dipartimenti di Sanità Pubblica e di mettere in campo interventi efficaci nel più breve tempo possibile.

Quali sono state le prime misure che avete attivato?

Abbiamo effettuato una sanificazione profonda di tutti gli ambienti del poliambulatorio sia nella sede di Forlì che in quella di Gambettola e dei tre ambulatori mobili di cui disponiamo, ripetendo tale operazione con frequenza settimanale fino a oggi. Siamo tornati a lavorare in sede venerdì 17 marzo, ma anche nei giorni precedenti i nostri telefoni non hanno mai smesso di squillare e abbiamo continuato a rispondere alle richieste in arrivo dalle aziende e dai lavoratori. A tal fine abbiamo comunicato a tutte le aziende sia le mail che i recapiti telefonici dei medici competenti affinché potessero renderli disponibili ai lavoratori attraverso le bacheche aziendali e facilitare la segnalazione diretta al medico di eventuali fragilità da proteggere dall’esposizione al rischio Covid, o la richiesta di spiegazioni e chiarimenti sul tema.

Nei mesi clou dell’emergenza, marzo e aprile, come avete organizzato il vostro lavoro?

In quel periodo abbiamo svolto la nostra attività di consulenza in modo continuativo, garantendo anche le visite per le aziende che hanno beneficiato della deroga per l’apertura. La mole di lavoro si è ridotta del 50%, ciò ha portato a un surplus di lavoro a partire da maggio che si è protratto fino ad agosto al fine di recuperare quanto era stato lasciato indietro. Quando le aziende ci hanno chiamato, ci hanno trovato pronti.

Alla fine del lockdown quali sono state le principali esigenze delle aziende?

L’attività di consulenza, soprattutto telefonica o via mail, non si è mai fermata, nemmeno nel mese di agosto, per aiutare le aziende a far fronte ad alcune nuove situazioni, come la ripresa dei contagi tra i lavoratori più giovani e spesso asintomatici. Altre aziende ci hanno chiesto come comportarsi in caso di lavoratori con un familiare risultato infetto. Un ulteriore problema di non poco rilievo ha riguardato e continua a interessare i cosiddetti “lavoratori fragili” e la loro nuova situazione.

A quale situazione si riferisce?

Il Governo ha prorogato lo stato di emergenza fino al 15 ottobre, ma non la possibilità da parte dei medici di base di attribuire il codice che era stato individuato per segnalare i lavoratori considerati più a rischio in caso di contagio. Mi riferisco a persone con particolari patologie – lavoratori diabetici e cardiopatici sono due esempi – che hanno un maggiore rischio di sviluppare complicanze in caso di positività al Covid-19. Rimane l’esigenza di tutelare in modo particolare questi lavoratori, ma è venuto meno il riferimento specifico presente a livello normativo fino allo scorso agosto.

Parliamo di test sierologici e mondo del lavoro: come sono stati accolti dalle aziende?

A giugno sono stati disponibili i primi test e sono uscite le direttive della Regione Emilia Romagna su come gestirli. Anche se è un problema di sanità pubblica, chiama in causa anche i medici competenti. Noi forniamo alle aziende le indicazioni sui laboratori analisi autorizzati e i kit che vengono utilizzati oltre ad assistere le imprese nella procedura burocratica da seguire. I test sono volontari e non obbligatori, ciò ha portato una buona parte di aziende e lavoratori a decidere di non effettuarli per paura di dover affrontare un nuovo stop lavorativo e una nuova quarantena in casa in attesa del successivo tampone. La speranza è che la situazione possa migliorare non appena saranno disponibili i tamponi rapidi, per i quali non dovremmo aspettare troppo tempo.

Quest’estate le cronache ci hanno raccontato in più occasioni di focolai isolati che hanno interessato particolari settori produttivi come la logistica e l’agroalimentare: ci sono imprese più a rischio di altre?

Credo che il problema in tutti questi casi sia stato lo stesso che si è verificato nei luoghi del divertimento in cui si sono avuti cluster di contagio, vale a dire la presenza di persone non residenti nel territorio e quindi più difficili da controllare. In ambito lavorativo laddove c’è una situazione di maggiore turnover o una forte stagionalità diventa meno facile il controllo preventivo e, in alcuni casi, anche il rispetto delle norme di contenimento del rischio.

Lo smart working o il telelavoro, nel rispetto delle diverse accezioni che hanno questi due termini spesso usati come sinonimi per definire di fatto il lavoro da casa, è stato un’ancora di salvezza oppure esistono anche chiaroscuri di cui è bene tener conto?

Lo smart working, nonostante sia stata una scelta necessaria e attuata in un tempo rapidissimo con una limitata progettualità, ha certamente permesso a tante aziende e lavoratori di poter proseguire la propria attività limitando i danni. Alcune aziende hanno deciso di proseguire parte della propria attività in questa forma, tuttavia il recepimento del benessere o del malessere di questa organizzazione lavorativa è molto diverso da persona a persona e da situazione a situazione. Qualcuno si è trovato bene a lavorare da casa, soprattutto chi è pendolare o ha un lavoro in cui il raggiungimento di obiettivi è preponderante. Qualcun altro si è trovato a subire le conseguenze negative di un maggior controllo o della mancanza del lavoro in team. Se dovessimo pensare a un’organizzazione del lavoro basata esclusivamente e in modo continuativo sullo smart working, credo che in molti casi le fonti di stress tenderebbero ad aumentare notevolmente.

L’ultima domanda è sul vaccino antinfluenzale: può essere un aiuto anche sul fronte lavorativo in attesa dell’arrivo di un vaccino anti Covid-19?

Il vaccino antinfluenzale è indicato per tutta la popolazione e verrà fornito a tutti i cittadini sopra i 60 anni (fino all’anno scorso sopra i 65 anni) e sarà disponibile dai primi di ottobre (fino all’anno scorso dai primi di novembre). Sui cittadini vaccinati, in caso di determinati sintomi compatibili con il contagio da Covid-19, permetterà di accelerare i tempi di intervento escludendo fin da subito la sindrome influenzale. Inoltre l’influenza stagionale potrebbe portare a debilitare le persone, soprattutto quelle meno giovani o con patologie croniche, rendendole più sensibili agli effetti del Coronavirus. In ogni caso sarà indispensabile continuare a rispettare con estrema attenzione le misure di contenimento a cominciare dal distanziamento fisico. In Australia, dove si è da poco concluso l’inverno quest’anno non si è registrata l’epidemia influenzale come la conosciamo, i casi sono stati sensibilmente minori rispetto al passato. Ciò significa che applicare le misure di distanziamento può avere un effetto benefico anche su questo fronte.