Dopo le fiere di settore, la posizione di CNA sul distretto calzaturiero del Rubicone: realtà vitale, con diversi nodi da sciogliere. Il bilancio di Piergiorgio Matassoni, responsabile di CNA Est Romagna.
Dalle ultime fiere di settore, tenutesi nei giorni scorsi a Milano, giungono notizie tranquillizzanti. I grandi nomi della scarpa italiana dichiarano di aver riscontrato una diminuzione del numero dei visitatori, ma di registrare un incremento in doppia cifra degli ordini. Scenari interessanti anche sulla base degli accordi conclusi con i clienti importanti nelle sale della fiera. Queste dichiarazioni delle griffe fanno nascere attese positive anche nelle imprese artigiane del settore.
Tutto ciò anche se l’esperienza ci insegna che un aumento degli ordini dei marchi di punta non sempre determina un effetto positivo diretto e immediato per le aziende dell’indotto. A queste preoccupazioni si aggiunge un altro elemento che minaccia il gruppo di piccole/medie aziende del comparto: la bassissima remunerazione del lavoro dei contoterzisti. L’importo medio al pezzo si aggira sui 28/30 centesimi al minuto e le tariffe sono ferme da tre/quattro anni. Sapendo quanto sono cresciuti in questi anni i costi aziendali, come può un’impresa sperare di rimanere sul mercato?
Eppure, nello stesso arco temporale, i prezzi delle scarpe per il consumatore finale sono aumentati eccome! Il problema è che le griffe dell’alta moda, che vedono diminuire i quantitativi venduti, si rifanno da un lato sui consumatori e dall’altro sui propri fornitori. Una politica miope, che rischia di far saltare un intero sistema, a svantaggio di tutti.
Il problema di fondo è che manca, allo stato attuale, un reale potere contrattuale di chi lavora conto terzi. Il prezzo è imposto e non esiste una trattativa commerciale che tenga conto, come è normale, degli interessi contrapposti. Per stare a galla gli artigiani sono costretti a lavorare un numero sempre maggiore di pezzi. Ma quanto a lungo potranno continuare?
Da sempre sosteniamo che sia ancora possibile produrre scarpe a San Mauro, servendosi del lavoro delle aziende artigiane e rimanendo comunque competitivi. Tale asserzione è sempre stata negata, nei fatti, da chi negli ultimi anni ha delocalizzato in Italia o all’estero e da chi ha applicato politiche tariffarie da terzo mondo.
Ma perché allora grandi marchi come Fendi, Chanel, Louboutin, Dolce & Gabbana e Armani hanno incrementato le commesse alle aziende del Rubicone? Per assurdo sembra che i grandi gruppi nati sul nostro territorio e che hanno permesso al distretto di prosperare e affermarsi siano quelli meno interessati a preservarne valori e competenze.
Tutto nasce da un grande equivoco su cosa si intenda per made in Italy. È solo questione di design e di brand? Oppure il made in Italy è così apprezzato all’estero perché racchiude in sé i concetti di manualità, professionalità, eticità e tradizione?
Non si tratta solo di cucire o tagliare, probabilmente tutti possono diventare bravi in questo. Parliamo di trasferire a quel prodotto una storia fatta di passione e tradizione, sensazioni e cura dei dettagli, trasformandolo in qualcosa di unico e di difficilmente imitabile. Sarebbe un po’ come pensare che le Ferrari potessero essere prodotte al di fuori di Maranello, mantenendo inalterato il loro fascino.
Questa è la grande sfida che ci aspetta nei tempi a venire, che coinvolge un intero sistema. Solo se riusciremo a far convergere le singole posizioni su questi principi cardine riusciremo a garantirci un futuro degno di essere vissuto.
Piergiorgio Matassoni
Responsabile CNA Est Romagna